A sostegno del Si anche il terrorismo psicologico dell’aumento dello spread

Il Presidente del Consiglio, malgrado il ricorso a tutte le risorse possibili, dal suo quotidiano imperversare in tutti gli spazi televisivi in dispregio della par condicio, alle generose mance previste nella manovra finanziaria, fino ai veementi quanto inediti attacchi frontali alla Commissione Europea, e perfino, con grande sofferenza del suo incontenibile ego, alla rinuncia della personalizzazione dello scontro, ha al fin capito che tutto ciò non sarebbe bastato a garantire la vittoria del Si. Per questo è ricorso all’arma segreta, e cioè al terrorismo psicologico, sotto forma di istillazione della convinzione del rischio di aumento esponenziale dello spread in caso di vittoria del No al referendum. Per orchestrare al meglio la vicenda, ecco che il fedele ministro degli interni Angelino Alfano, sempre “quidcarente”, ma non per questo meno dannoso, ha lanciato un invito all’opposizione a pronunciarsi sulla ipotesi di un rinvio della data della consultazione referendaria, quasi subito dopo smentito dal compare premier, ma non senza prima avere determinato qualche ora di fibrillazione in borsa, con lo spread che è lievitato verso l’alto, per poi ridiscendere subito dopo, e costituire l’alibi perfetto per orchestrare le azioni della strategia del terrore, che sono scattate con precisione cronometrica, a livello nazionale e internazionale, attraverso i commenti di tutti i soggetti interessati e, ovviamente, manovrati dai “Poteri forti”. Peccato però che la vittoria del No, non centri nulla con le oscillazioni dello spread, così come è bene spiegare in maniera più analitica. Non senza prima avere chiarito che, se anche fosse vero questo legame tra aumento dello spread e rifiuto delle riforme, chi ha capito che il vero obiettivo della riforma è realizzare una dittatura in pantofole con “un uomo solo al comando e senza contrappesi costituzionali”, non potrebbe comunque votare Si e, se lo facesse per paura della crisi economica e della lievitazione dello spread, esprimerebbe un voto sotto ricatto, lesivo dei propri diritti costituzionali e, oltreché, la più evidente conferma della deriva autoritaria a cui porterebbe la vittoria del Si a queste riforme. Ma davanti al terrorismo, specie se psicologico, non c’è arma migliore della ragione, e allora si chiarisca che lo spread altro non è che la differenza tra i tassi di interesse che gravano sui titoli del debito pubblico emessi dallo Stato italiano, rispetto agli interessi che vengono pagati sui titoli emessi dallo Stato tedesco. Questa differenza c’è sempre stata, ma l’obiettivo non è di eliminarla, bensì di evitare che possa aumentare. Ma a cosa è dovuta questa differenza? Alla diversa affidabilità dei Paesi dell’Unione Monetaria, che a sua volta dipende dall’entità del debito pubblico in rapporto ai rispettivi PIL, come nel caso di Germania ed Italia. L’adesione all’Unione Monetaria Europea infatti comporta che il valore dell’Euro sia il risultato del mosaico delle economie di ciascuno dei 17 paesi che la compongono, le cui condizioni economiche ed in particolare debitorie, sono però in alcuni casi drammaticamente diverse. L’Italia, con il suo enorme debito, classificato al terzo posto più alto del mondo, ha un grande problema di fragilità nell’ambito dei Paesi dell’Unione nel garantire affidabilità e stabilità, ed è per tale ragione che era stato concordato con i partner europei un percorso che avrebbe dovuto comportare dal 2016 in poi una riduzione progressiva del 3% del deficit nel rapporto debito-Pil, che si sarebbe dovuta concludere entro il 2018, con il suo definitivo azzeramento. Se l’Italia avesse rispettato i patti, ed avesse assunto politiche espansive del PIL, come hanno fatto tutti gli altri Paesi dell’Unione, il debito pubblico non sarebbe ulteriormente cresciuto come invece è accaduto, e lo spread si sarebbe ridotto perché i mercati avrebbero rilevato il progressivo risanamento dei conti pubblici italiani e la diminuzione di un rischio di default. Ma tutto questo non è accaduto semplicemente perché il nostro logorroico Premier ha fatto esattamente il contrario. Ha infatti richiesto di anno in anno sempre maggiori livelli di “flessibilità”, che altro non è che l’aumento della spesa pubblica e il suo finanziamento con il ricorso al deficit, con il conseguente rinvio al futuro della strategia di risanamento. Il deficit, infatti, invece di ridursi nel 2017 come originariamente concordato allo 0,7%, e l’anno scorso rialzato all’1,7%, è stato fissato nell’ultima manovra finanziaria al 2,3% del rapporto debito-PIL, con l’aggravante di utilizzare queste risorse non per aggredire i nodi che impediscono lo sviluppo, ma per attuare l’unica politica che Renzi conosce, e cioè la stessa utilizzata dai governi di pentapartito nella prima Repubblica, in cui la lotta politica si combatteva non con le idee ma con le mance elettorali, i contributi a “babbo morto”, ed in qualunque altro modo per determinare lo sperpero che in pochi anni ha portato alla rovina del nostro Paese. Questa scellerata scelta dell’attuale governo in carica, che è anche l’autore della riforma costituzionale, è l’unica ragione alla base della fragilità dello spread perché, dopo avere già ottenuto e sprecato ben 19 miliardi di cosiddetta “flessibilità” senza ottenere alcun risultato economico, ha confermato l’assenza totale di strategie di rilancio dell’economia italiana con l’ultima finanziaria, scritta con l’unico obiettivo di acquistare consensi per il Sì. Uno spreco enorme di ulteriori 10,2 miliardi di euro, per distribuire una pletora di contributi a pioggia, senza alcuna garanzia di continuità e soprattutto incidenza sui fattori della deriva economica del Paese. Tutto questo rappresenta la vera ragione del rischio spread e se è vero che la debolezza del nostro Paese è stata ulteriormente aggravata proprio dalle scelte politiche fallimentari di questo governo, è proprio la vittoria del Si che, al contrario, contiene tutto il micidiale potenziale per fare esplodere l’aumento dello spread, anche perché i mercati cos’altro potrebbero aspettarsi nelle scelte future di un governo abituato alla politica accattona del consenso e non certo ai grandi traguardi di corretta gestione delle risorse in funzione del rilancio dell’economia e dell’occupazione, e specie con l’aggravante dello strapotere dello stesso Premier spendaccione, coronato dalle riforme a “Uomo solo al comando”? La verità è che questo governo non ha una strategia per far uscire l’Italia dal declino e conosce solo la politica dell’uso della spesa pubblica per assecondare tendenze assistenzialistiche, che sono state alla base del fallimento del nostro Paese. La vittoria del Si, con la trasformazione del premier in presidente di fatto e senza contrappesi costituzionali per poterne temperare gli eventuali eccessi, è il miglior viatico per l’ultimo e definitivo “attacco alla diligenza”, prevedibilmente da effettuare con la finanziaria del prossimo esercizio, che sarà quello delle elezioni, e poi come ha fatto Tsipras in Grecia, una volta ottenuto finalmente l’agognato consenso popolare, potere dire a tutti quanti “Finora abbiamo scherzato, ora dobbiamo suonare la campana della ricreazione che è irrimediabilmente finita e andare tutti a lavorare a metà stipendio e pensione per conclamato fallimento”. Per tutte queste ragioni occorre votare No alle riforme, perché rimane l’unica scelta per bloccare l’avviato processo di deriva autoritaria nel nostro Paese, porre fine al bengodi nell’uso distorto delle risorse pubbliche e scongiurare l’avvio di processi speculativi sullo spread.

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